Israele-Iran: come l'America si è trascinata in guerra e perché la tregua di Trump non basta

Israele-Iran: come l'America si è trascinata in guerra e perché la tregua di Trump non basta

Dal 7 ottobre a una guerra di 12 giorni: la traiettoria

Nessuno alla Casa Bianca voleva un’altra guerra in Medio Oriente. Eppure, tra missili intercettati nel cielo notturno e convogli navali che cambiavano rotta nel Golfo, Washington si è ritrovata dentro la crisi Israele-Iran più di quanto avesse pianificato.

Il punto di partenza resta il 7 ottobre e il conflitto in Gaza, che ha aperto una stagione di attriti a catena. Il fronte nord con Hezbollah, le milizie filo-iraniane in Iraq e Siria, i droni dallo Yemen contro il traffico nel Mar Rosso: tutto ha aumentato il rischio di errore di calcolo. Gli Stati Uniti hanno risposto con portaerei, batterie di difesa aerea e colpi chirurgici contro gruppi filo-Teheran, provando a disinnescare senza accendere un falò regionale.

Nel 2024 l’asse dello scontro si è allargato. Iran e Israele si sono colpiti a distanza con cyberattacchi, sabotaggi e salve di droni e missili. A inizio 2025, l’obiettivo americano era semplice: evitare l’irreversibile. Ma la finestra per fermare l’escalation si è stretta. Pressioni israeliane per un segnale “risolutivo”, la risposta iraniana per non perdere la faccia, e un mosaico di milizie locali con agende proprie hanno creato un effetto valanga.

Così si è arrivati alla “guerra dei 12 giorni” di giugno 2025: un ciclo breve ma intenso di scambi, con Israele che ha colpito asset militari iraniani all’estero e infrastrutture di supporto, e Teheran che ha risposto con droni e missili lanciati anche tramite proxy. Gli Stati Uniti sono entrati con difese aeree, guerra elettronica, intelligence in tempo reale e pressioni diplomatiche serrate. La linea rossa era chiara: contenere, evitare un conflitto aperto tra stati, chiudere il ciclo al più presto.

La tregua annunciata da Donald Trump ha bloccato l’escalation. Ognuno ha rivendicato qualcosa: Israele ha parlato di deterrenza ristabilita; l’Iran ha mostrato resilienza e capacità di colpire per procura; Washington ha evitato un conflitto lungo e costoso. Ma sotto la superficie il rischio resta. Nessuno ha modificato davvero le proprie priorità strategiche. Le reti di milizie sono intatte, il dossier nucleare iraniano è sul tavolo, il confine nord di Israele è caldo e il Mar Rosso resta vulnerabile.

Il punto chiave è che gli Stati Uniti non volevano “entrare in guerra” nel senso classico, ma la logica delle alleanze e della credibilità li ha spinti sempre più vicino alla linea del fronte. Alla fine, difendendo Israele e gli asset USA nella regione, Washington ha assunto costi e rischi che ricordano quelli di una guerra a bassa intensità, anche senza una dichiarazione formale.

La strategia di Washington tra deterrenza e trappole

Il nodo politico è tutto qui: come evitare di farsi trascinare, senza sembrare deboli. Benjamin Netanyahu ha puntato proprio su questo equilibrio precario. Per anni ha costruito un discorso in cui l’interesse vitale di Israele coincide con l’interesse vitale americano. Se salta la deterrenza israeliana, argomenta quel campo, salta la credibilità di Washington in tutto il mondo. È la logica della cinghia di trasmissione: se cade un ingranaggio, cade il meccanismo.

La Casa Bianca, anche con il team entrato nel 2025, ha provato a resistere. Tempo, contatti discreti con mediatori regionali, ruolo all’Europa per corridoi umanitari e de-escalation, e una lista di “linee rosse” comunicate a entrambe le parti. Resistere, però, significa reggere a pressioni incrociate: interne (Congress, opinione pubblica stanca di guerre), esterne (alleati che chiedono garanzie di sicurezza), e operative (militari sul terreno che devono proteggere basi e personale).

Perché i rivali hanno fiutato un varco? La percezione è che l’America sia impegnata su troppi tavoli: sostegno a Kiev, deterrenza nell’Indo-Pacifico, instabilità in Medio Oriente. In più, la polarizzazione politica a Washington rende ogni scelta contestata. In questo clima, parlare di “fine dell’egemonia USA” è diventato comune nei think tank. Ma i fatti raccontano qualcosa di più sfumato: la potenza americana resta senza pari, però i costi per usarla aumentano e il ritorno politico diminuisce. Deterrere oggi richiede più risorse, più diplomazia, più pazienza.

Nel caso Israele-Iran, la deterrenza ha funzionato a metà. Ha evitato un conflitto prolungato, ma non ha impedito la guerra breve. Ha limitato gli obiettivi, ma non ha disarmato i calcoli dei due protagonisti. L’Iran ha agito con una razionalità fredda: alzare il prezzo all’avversario senza chiudere le porte al negoziato. Israele ha guardato all’apocalisse strategica: mai dare all’avversario la possibilità di accumulare vantaggi, anche a costo di colpire per primi.

Che cosa ha spinto Washington dentro la spirale, nonostante le cautele?

  • Difendere Israele e l’affidabilità delle garanzie USA verso gli alleati regionali.
  • Rispondere ad attacchi di milizie filo-iraniane contro forze e infrastrutture americane.
  • Il rischio di un errore di calcolo durante scambi di fuoco ad alta intensità.
  • Pressioni politiche interne ed esterne per “far qualcosa ora”.

Le mosse USA hanno seguito tre binari: deterrenza militare (intercettazioni, posture navali, cyberdifesa), diplomazia di crisi (mediatori regionali, canali indiretti con Teheran), e gestione dell’opinione pubblica (messaggi chiari: “non vogliamo una guerra lunga”). Sondaggi nazionali della primavera 2025 indicavano una maggioranza contraria a un conflitto diretto con l’Iran, ma favorevole a proteggere alleati e personale americano. È il paradosso della politica estera americana: molti limiti, molte aspettative.

E l’Europa? Ha provato a costruire spazi di manovra su aiuti umanitari, sicurezza marittima e non proliferazione. Utile, ma insufficiente. Senza leva militare e senza una posizione unica, l’influenza europea resta tattica, non strategica. La tregua di giugno è stata possibile soprattutto perché i tre attori principali – Washington, Gerusalemme, Teheran – volevano fermarsi a un passo dal baratro.

La lista dei dossier ancora aperti è lunga. Il nucleare iraniano resta l’elefante nella stanza. Il confine israelo-libanese può riaccendersi con poco. Il Mar Rosso continua a essere vulnerabile ad attacchi che gonfiano i premi assicurativi e rallentano le catene globali. In Iraq e Siria, le milizie legate a Teheran hanno la capacità di tenere sotto pressione basi e convogli occidentali. Ogni tassello può far saltare la tregua.

Che cosa può fare Washington per non scivolare di nuovo? Definire poche linee rosse, semplici e credibili. Tenere vivi i canali indiretti con Teheran (Oman, Qatar), offrendo graduazioni di incentivi e sanzioni. Integrare meglio le difese aeree regionali per ridurre l’efficacia dei salve di droni e missili. Sostenere una stabilizzazione minima a Gaza, perché ogni crisi umanitaria estrema si traduce in pressione strategica. E, soprattutto, evitare automatismi: non ogni attacco richiede una risposta simmetrica.

Sullo sfondo c’è la grande domanda: stiamo vivendo la fine dell’egemonia americana o solo una fase in cui comandare costa molto di più? La sensazione, tra capitali amiche e avversarie, è che si sia aperta un’era più rumorosa e meno prevedibile. Meno regole, più test dei limiti. In questo ambiente, una tregua è un intermezzo, non un nuovo ordine. Per questo la tregua annunciata da Trump “soddisfa e delude” tutti insieme: ha fermato il peggio, ma non ha risolto la causa del problema.

Gli Stati Uniti restano il pompiere che porta più acqua e la regia senza la quale la scena si incendia. Ma il quartiere è cambiato: più vicini con agende proprie, più focolai che divampano da soli, più pubblico stanco del fumo. La sfida, ora, è spegnere gli incendi senza restare intrappolati tra le fiamme.

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Marco Bellavista

Marco Bellavista

Sono Marco Bellavista, un esperto appassionato di sport con una particolare predilezione per il calcio. Da anni mi dedico alla scrittura di articoli e analisi sul mondo del pallone, cercando sempre di offrire spunti interessanti e originali. Ho collaborato con diverse testate giornalistiche e siti web specializzati nel settore, contribuendo alla crescita della cultura calcistica in Italia. La mia passione per il calcio mi ha permesso di approfondire le mie conoscenze e diventare un punto di riferimento per gli appassionati. Oltre alla scrittura, mi piace seguire le partite dal vivo e confrontarmi con altri esperti del settore.

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